di Antonio Barbato
Il contesto storico
Caravaggio giunse a Napoli nel periodo terminale del 1606 per sfuggire a una condanna a morte a mezzo decapitazione, che pendeva sul suo capo a seguito dell’uccisione in una rissa di un suo rivale nel gioco della pallacorda.
Già famosissimo a Roma, grazie alle commissioni affidategli dai suoi principali protettori, il cardinale Del Monte e il principe Colonna, Caravaggio era però anche noto per l’attitudine rivoluzionaria dei suoi quadri.
I committenti molte volte non sapevano quale sarebbe stato il risultato finale dell’opera che avevano ordinato, e in diverse circostanze avevano rifiutato di pagare il lavoro finito, ritenendolo oltraggioso, o non adatto, per essere esposto come modello di virtù o pietas cristiana.
In ogni caso la straordinaria capacità raffigurativa, il sapientissimo uso del chiaroscuro e la violenza delle immagini stesse avevano reso Caravaggio un maestro assoluto, al quale gran parte dei pittori guardava o con evidente ammirazione o con malcelato disprezzo.
Nella fase della sua pittura posteriore alla condanna, però, i motivi inquietanti legati a morti violente (quasi sempre per decapitazione), compaiono con una frequenza e una ricorrenza che non possono essere casuali.
Basti pensare, per esempio, al Davide con la Testa di Golia, nel quale il pittore rappresenta le sue fattezze nel volto trasfigurato dalla morte del gigante filisteo, oppure al Salomè con la Testa del Battista, per capire che il peso della condanna era, a livello esistenziale, sempre presente dentro di sé.
In ogni caso a Napoli fu accolto in maniera eccellente dall’ambiente artistico e da numerosi protettori ed egli, che prese casa nel quartiere più popolare della città, si trovò benissimo a contatto sia con la vita quotidiana che con i rappresentanti della nobiltà e degli enti caritatevoli.
Uno di questi era il Pio Monte della Misericordia, che vantava fra i suoi principali aderenti i nobili Della Conca e Luigi Carafa-Colonna, appartenente al ramo cadetto della famiglia che aveva permesso al Caravaggio una fuga rocambolesca da Roma e il suo successivo trasferimento a Napoli.
Grazie anche alla loro intercessione al pittore venne commissionata l’esecuzione di un’opera che avrebbe avuto una eco immediata e decisiva sulla evoluzione della pittura meridionale, e italiana, del 1600. Il quadro avrebbe, ancora una volta, messo in rilievo l’aspetto terreno della visione del Caravaggio, rispetto a quella puramente spirituale o didascalica che dominava nella rappresentazione religiosa coeva, dando allo sguardo dell’osservatore una chiave di lettura totalmente nuova e immediatamente utilizzabile nella vita di tutti i giorni, per comprendere concetti che, altrimenti, sarebbero restati confinati nell’esclusivo contesto di intellettuali o altri pittori.
Anche se i committenti non ebbero la possibilità di vedere l’opera fino a quando essa non fu compiuta, in un intervallo di tempo davvero ridotto, il risultato finale fu di assoluto loro gradimento, malgrado (o, forse, proprio per questo) il fatto che essa stravolgeva l’usuale raffigurazione del soggetto.
L’analisi del quadro, che svolgeremo grazie al metodo e alle conoscenze che l’EdP ci fornisce, ci permetterà anche di capire attraverso la presenza di dettagli rivelatori in che modo l’appartenenza del pittore al tipo Otto si riverbera in modo evidente sulla tela.
Per il momento basta solo ricordare che (tanto è sconcertante ciò che viene offerto allo sguardo dell’osservatore), ancora al giorno di oggi molti critici di arte non sanno bene come commentare il quadro e cosa desumere dalle immagini così disturbanti, che vengono offerte dal pittore, invece, come modelli da seguire nella pratica di un’attiva vita materiale e spirituale.
La composizione del quadro
Le Sette Opere di Misericordia Corporale è una tela di quasi quattro metri per due e sessanta, realizzata con la tecnica a olio e pensata per essere posta sull’altare maggiore della cappella del Pio Monte in Napoli, un luogo abbastanza buio in cui la luce arriva dai finestroni posti in alto e dall’ingresso principale che si trova, però, sotto un portico.
Questa collocazione rende ancora più deciso il contrasto fra le zone scure del quadro e l’ocra arancio degli abiti o il bianco delle carni che, come in quasi tutte le opere del Caravaggio, sono riproduzioni assolutamente realistiche della naturalezza umana.
L’insieme è denotato da una forte tensione dovuta sia alla necessaria contemporaneità delle azioni, sia al piegarsi dei muscoli, costretti a svolgere movimenti quasi convulsi dalla volontà che anima e muove i personaggi nei loro intenti.
Al centro del quadro in funzione di punto focale di riferimento si trovano una meravigliosa immagine di donna con un bambino (Maria la madonna, simbolo della luce della Misericordia divina) e due straordinari angeli funamboli il cui sguardo, quasi stupefatto, sembra osservare con attenzione e partecipazione lo svolgimento dell’azione che si attua sotto di loro.
I contenuti del quadro
Ricordiamo, innanzitutto, quali erano (e sono) secondo la dottrina della chiesa cattolica le Sette Opere di Misericordia Corporale che, unite a quelle di tipo Spirituale, dovevano essere agite dal credente/pellegrino durante il suo passaggio in questo mondo ricco di dolori e traversie.
L’elenco, riassunto brevemente, è il seguente:
- Dar da mangiare agli affamati,
- dar da bere agli assetati,
- vestire gli ignudi,
- seppellire i morti,
- alloggiare i pellegrini,
- visitare e curare i malati,
- e visitare i carcerati.
Basta paragonare l’opera del nostro autore a quelle realizzate sullo stesso tema da altri notevoli pittori, anche suoi coevi o posteriori, per rendersi conto, anche visivamente, che siamo su due rappresentazioni situate quasi all’opposto di una scala parametrale.
Nelle opere di grandi maestri quali Peter Bruegel il Giovane, David Teniers, il Maestro di Alkmaar, le Opere di Misericordia sono quasi paludate e idealizzate.
L’atto di Seppellire i Defunti, per esempio, non viene mai mostrato per quello che esso realmente è; sostenere un corpo col relativo necessario sforzo per alzare prima il peso e deporlo poi in qualche oggetto in attesa di seppellirlo nella nuda terra, ma viene sempre relegato in secondo piano, e più che mostrato è quasi suggerito dal fatto che alcuni uomini trasportano una bara in un modo quasi asettico.
Allo stesso modo Visitare i Carcerati non è mai un entrare in contatto con il luogo desolante nel quale quegli uomini si trovano, sentire la loro astinenza e la loro rabbiosa disperazione, quanto, piuttosto, un portare loro il conforto della parola che dovrebbe, per sua stessa natura, essere il mezzo di quella trasmissione salvifica spirituale che elimina, o rende sopportabile, ogni privazione umana.
Anche il Visitare i Malati è espresso attraverso un dialogo con un malato spesso tranquillamente disteso in un comodo letto, e sembra più una visita di cortesia (mancano solo il thè e i pasticcini), piuttosto che quello che nella realtà è; un doversi prendersi cura dei problemi fisici connessi alla malattia, alla incapacità del degente di prendersi cura di se stesso e di autogovernarsi.
Perfino gli sfondi utilizzati per mettere in primo piano le Opere sono luminosi, quasi a suggerire che gli uomini si muovono spinti nelle loro intenzioni da un richiamo incessante da parte di Dio, che rende plausibile e quasi necessario lo svolgimento delle azioni senza che vi sia una vera fatica nel farle, senza che esse costino impegno, dedizione e contatto con quello che più di afflittivo vi è nella vita dell’uomo in questo piano dell’esistenza.
Ben altra è la raffigurazione realistica che ci viene proposta dal Caravaggio!!
Ogni azione, ogni figura, richiama direttamente l’osservatore anche se nessuno dei personaggi si rivolge direttamente a lui, e trasmette il proprio messaggio in un modo assolutamente chiaro e definito, senza compromessi o abbellimenti.
Sappiamo che la passione del tipo Otto, al quale apparteneva Caravaggio, è l’Eccesso, che porta le persone a essere rivoluzionarie nella vita come nell’arte e si esprime anche attraverso un affermare in modo diretto e concreto la visione del mondo di questo tipo. Ciò viene fatto senza preoccuparsi troppo delle conseguenze di quello che si dice o si fa, e senza curarsi di quelle che, agli occhi di un Otto, appaiono solo come piccole ipocrisie alle quali una persona veramente schietta, concreta, addirittura onesta, non dovrebbe dare retta.
Così il pittore attraverso le immagini ci racconta una visione del mondo che non viene abbellita in alcun modo, ma illustra ciò che esso realmente è. Un luogo nel quale sangue, sudore, sofferenza e morte sono esperienza quotidiana e le opere di misericordia, più che opera di carità, diventano una sorta di complicità, un far fronte davanti al comune destino, una richiesta di pietas verso tutti gli esseri umani indipendentemente dal loro stato o da ciò che li ha portati a essere ciò che sono.
Il linguaggio espressivo, di conseguenza, è duro, non si nasconde dietro sofisticate metafore, ma va alla sostanza reale delle cose.
La fame è fame e la sua forza vince ogni resistenza, fa venire meno ogni forma di pudore o di imbarazzo, rende esplicito che le regole morali e sociali (soprattutto quelle) possono essere facilmente superate, quando un impulso fisico insopprimibile richiede soddisfazione.
Questa è una delle forme principali con le quali si esprime l’Eccesso; un non volere accettare limitazioni né da parte di una autorità esterna, né da parte della propria coscienza morale quando il desiderio o la forza di un impulso si avvertono nella interezza senziente della persona.
Vediamo ora come questa Passione risulta evidente nel quadro, analizzando i suoi dettagli e osservando la descrizione dei fatti che lo spettatore osserva.
Sulla estrema sinistra due uomini sono rappresentati di fianco e posti uno di fronte all’altro. Quello alla nostra destra ha il volto rivolto verso la terra e ha sul cappello una conchiglia, simbolo del fatto che è andato a Santiago di Compostela ed è, quindi, un pellegrino. Fra i due uomini è in atto una sorta di strana relazione. Nulla nell’atteggiamento dell’uomo di sinistra fa trasparire che egli si trovi nel momento in cui sta per compiere un’opera di misericordia. La sua mano sinistra, piegata verso il corpo con l’indice che punta verso un luogo indefinito, può significare qualsiasi cosa e non è detto nemmeno che si rivolga all’uomo alla sua sinistra.
Forse sta rispondendo alla richiesta del luogo in cui l’altro uomo può trovare un cambiavalute, un’osteria nella quale ubriacarsi e trovare facile compagnia, o essere un suggerimento di non andare in quella direzione, perché si potrebbe andare incontro a qualche pericolo, e così via.
Certo è che l’uomo a destra ha abiti e barba ben curati, molto lontani dell’iconografia classica del pellegrino smunto e sofferente, e perfino il suo bastone sembra troppo ben fatto e al tempo stesso poco sottile per essere di vero aiuto in un lungo cammino.
L’insieme delle sue figure e la loro mimica sembra suggerire più l’idea di una certa forma di complicità fra di loro, che non di un prendersi cura delle necessità inderogabile dell’uno da parte dell’altro. La fronte aggrottata e la posizione lievemente china del volto dell’uomo a sinistra sembrano indicare che egli stia reagendo a uno stimolo inatteso, a qualcosa che in un primo momento lo aveva posto in uno stato di stupore e gli aveva prodotto una certa difficoltà nel dire ciò che pensa.
Molto significativa è la presenza alle loro spalle della figura di Sansone che beve da una fiasca e dovrebbe simboleggiare il dare da bere agli assetati.
La prima cosa che ci colpisce è che, in questo caso, nessuna opera caritatevole viene svolta in favore di qualcun altro, ma si tratta solo della soddisfazione di un proprio bisogno.
Come si spiega, allora, la sua presenza nel quadro e che significato vuole trasmettere la sua azione?
Per rispondere compiutamente ricordiamo che la concezione fondamentale dell’Eccesso è quella secondo la quale solo il forte può trovare vera soddisfazione al suo bisogno.
Essere forti per un Otto è una condizione esistenziale fondamentale, sia perché essa sostiene l’Immagine Idealizzata che una persona di questo tipo ha, sia perché in essa un Otto trova la giustificazione fondamentale per dare libero sfogo al suo atteggiamento nella vita.
Sansone, come ci racconta la Bibbia, è il simbolo per eccellenza della Forza e l’avidità con la quale si versa in bocca l’acqua (che potrebbe anche essere vino o qualsiasi altro alcoolico) della fiasca, sembra affermare chiaramente un concetto molto caro al tipo Otto: finché sei padrone di te stesso non ti aspettare che qualcun altro sia disponibile ad accogliere un tuo bisogno, ma agisci con forza per dare un sollievo il più possibile immediato alle tue necessità.
Anche l’avidità tipica dell’Eccesso sembra essere ben visibile nelle rughe che aggrottano il volto del personaggio e indicano, insieme alla tensione degli occhi, la liberazione grazie alle proprie azioni da uno stato di soggezione e bisogno.
Le figure di Martino di Tours e dell’uomo contorto ai suoi piedi vengono usate per illustrare i due precetti di vestire gli ignudi e curare gli infermi. Secondo l’iconografia che accompagna il suo nome, infatti, Martino non è solo colui che ha pietà del freddo patito dall’altro, ma è anche il patrono delle cure palliative.
Un termine questo derivato proprio dal termine latino pallio, che indicava il prezioso mantello da lui indossato e che, secondo la tradizione, egli avrebbe tagliato con la sua spada per permettere al mendicante di difendersi dal freddo, anche al costo di avvertirlo, seppure in parte, lui stesso.
Martino, inoltre, secondo la tradizione agiografica, era un uomo veramente forte e proprio per questo capace di comprendere la sofferenza dell’altro e di essere protettivo nei suoi confronti, Tratti che sono presenti in un Otto integrato che prende in carico il dolore reale, e quindi quello fisico, dell’altro.
Allo sguardo assorto e distaccato del santo si contrappone l’avidità quasi rapace del gesto dell’uomo seduto a terra nell’afferrare il mantello, il cui piede sinistro rivolto all’indietro testimonia la sofferenza intensa che sta provando come è anche ben visibile dalle scapole scavate e dal braccio che si appoggia a terra per trovare la forza per protendersi verso il dono del santo.
Alla destra (dal punto di vista dell’osservatore) di queste due figure ve ne sono altre due in piena luce e, certamente, una terza nascosta fuori dal piano del quadro, ma che è necessaria per lo svolgimento dell’azione.
Essi rappresentano figurativamente il seppellire i defunti e ci mostrano la cruda realtà con la quale un Otto (e, ancor più Caravaggio sul quale, come abbiamo già visto, pendeva una condanna a morte che poteva essere eseguita da chiunque e in qualsiasi momento) si confronta continuamente; la vita è breve e quando l’energia vitale è fuggita via da te nulla può farla tornare indietro.
Il volto del necroforo in primo piano che regge la parte inferiore del cadavere ci è tenuto volontariamente nascosto e si intravvedono solo alcune parti del suo corpo, l’altro, che si intuisce essere dietro le quinte per reggere la parte superiore, è addirittura nascosto alla vista.
La figura che assume un ruolo centrale in questo contesto è quella dell’uomo che regge la fiaccola e dona luce a tutto il movimento, compreso quello della donna collocata alla sua destra.
Chi è quest’uomo? L’abito che indossa potrebbe far pensare a una tonaca, ma essa non reca alcun segno particolare, nessuna croce, per esempio, che ci si potrebbe attendere da un prete e lo stesso berretto che reca in testa è volontariamente lasciato informe e quasi indefinito.
Egli potrebbe benissimo essere, in questo modo, un semplice capo interro, qualcuno che, come indica la sua bocca aperta, sta mormorando alcune parole che possono essere preghiere, ma anche un verso di un canto profano sulla vacuità della vita,
Quello che particolarmente sorprende è la sicura somiglianza fra il volto dell’uomo che regge la fiaccola e la testa mozzata del Golia, nella quale quasi tutti i critici vedono un autoritratto del Merisi.
Si tratta di una semplice coincidenza o di un accostamento voluto? Non lo sappiamo, ma se l’ipotesi fosse rispondente al vero, il significato di questa scena cambierebbe drammaticamente.
Essa diventerebbe una metafora perfettamente capace di trasmettere la situazione esistenziale del pittore, perché diventerebbe una sorta di atto di pietà verso se stesso, una sorta di monito e insieme di rimprovero; alla luce della ragione ogni atto che porta verso una conclusione improvvisa della propria vita altro non è che una sciocchezza.
Non serve a nulla essere persone di grande cultura o intelligenza, potere o ricchezza. Alla fine ciò che resta di un’avventura umana è solo un paio di piedi sporchi e incalliti, perché hanno dovuto confrontarsi con un terreno reso aspro dalle durezze di questo mondo.
Anche questo, come sappiamo, è un tema molto presente nella struttura psichica di un Otto ed è espresso attraverso l’uso del suo principale Meccanismo di Difesa Primario, la Desensibilizzazione.
L’immagine usata dal Caravaggio sembra così quasi l’illustrazione didascalica del famoso detto sufi gli arti del lavoratore manuale, a contatto con elementi grossolani, diventeranno rapidamente sporchi e pieni di calli.
Il gruppo di figure più sorprendente della parte bassa del quadro è, però, quello che si trova nell’angolo destra e raffigura le due opere di visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati.
A incarnare questi due precetti è l’unica figura femminile della parte bassa del quadro, quella che dovrebbe raffigurare, secondo l’interpretazione più coerente, una donna romana dell’epoca imperiale, Pero, che secondo lo scrittore Valerio Massimo si sarebbe recata più volte in carcere per nutrire il proprio padre Cimone, condannato a morte per inedia.
Secondo la leggenda romana, che ha numerose varianti, Pero che aveva da poco partorito, avrebbe allattato ogni giorno il padre e si sarebbe così resa essa stessa colpevole di un grave delitto, perché avrebbe disobbedito alla sentenza del giudice e alla legge, ma scoperta dai secondini (insospettiti dal semplice fatto che l’uomo continuava a vivere), avrebbe avuto salva la vita.
I giudici ritenendo, infatti, il suo gesto un atto di eroismo estremo e di vera pietas romana, sarebbero stati a tal punto colpiti dall’amore filiale della donna da graziare lei e anche il padre, dando ordine di erigere sul luogo ove era avvenuto il fatto, un tempio in ricordo dell’evento.
Questo tema era stato già rappresentato da una lunga serie di grandi pittori e avrebbe avuto un altrettanto lungo seguito successivamente, tanto da essere spesso utilizzato come semplice sfondo per rappresentare scene ricche di grande sensualità e significati allusivi.
Che interpretazione ce ne dà Caravaggio con la sua visione del mondo da tipo Otto?
Notiamo, innanzitutto, che Pero è una donna che non si preoccupa del rischio che corre. Essa è così convinta della necessità di quello che deve fare che quasi non si cura del contesto in cui si trova. Oltrepassa ogni inibizione, ogni pudore, perfino la naturale ritrosia a superare il limite del rapporto contatto carnale fra consanguinei, pur di raggiungere il suo scopo.
Si può affermare che, a differenza di tante rappresentazioni raffiguranti lo stesso soggetto, la Pero del nostro quadro è una donna forte, risoluta, scaltra e insieme determinata.
Tutte caratteristiche di un sottotipo dell’Otto che io denomino come il Temerario, per la specifica qualità di non farsi inibire dai rischi pur di raggiungere il proprio scopo.
C’è, comunque, in questa sua azione molto di più di questo, come si può apparire a prima vista. Osserviamo con attenzione la figura della donna, la sua postura e i suoi moti espressivi…
In primo luogo la sua mano destra tiene fermo il vestito e copre il seno, lasciando così capire che nel suo gesto non vi è alcun intendimento di tipo sessuale, nessun tipo di compiacimento o di concessione alla carnalità in quanto tale, ma solo l’adempimento di un obbligo di vicinanza, di un atto che richiede per essere compiuto di utilizzare, come fece Gesù, il proprio corpo e perfino i propri fluidi corporali (il sangue nel caso di Gesù, il latte in quello di Pero).
Inoltre, il volto della donna è rivolto verso la sua destra e non va a incrociare lo sguardo di nessun altro, tranne quello dell’uomo il quale, con un gesto ambiguo, sta indicando un qualcosa che, a sua volta, è collocato alla sua destra.
I due personaggi stanno in qualche modo comunicando? Il gesto dell’uomo, forse, più che al pellegrino che gli è vicino, si rivolge alla donna che lo guarda e le intima qualcosa?
Non lo sapremo mai, ovviamente, ma la suggestione che la donna, come è tipico dell’Otto, si stia ribellando a qualcosa che le viene ordinato è molto forte.
Ella, infatti, volge le spalle alla scena del seppellimento del cadavere e mostra in questo modo un assoluto disinteresse verso quell’atto, come a voler affermare che non è la morte a interessarla, ma la vita, e quello che va fatto per il suo mantenimento.
Inoltre, e il dettaglio non può essere privo di significato, la sua bocca è aperta. Ella sta dicendo qualcosa, anche se non sappiamo cosa e a chi.
Poiché tutto il quadro è sicuramente ambientato in una strada popolare di Napoli viene da chiedersi se la donna, come avveniva allora e come accade ancora oggi, si stia rivolgendo ad alta voce all’uomo, per sovrastare il rumore di fondo, dicendogli di aspettare ancora un poco, di farle ultimare il compito che si è assunta.
Il rapporto che la lega al presunto padre, richiama fortemente il complesso legame fra una persona del tipo Otto e quello che io, nel mio lavoro sui Paradigmi Familiari, definisco come genitore debole.
Questi è contemporaneamente amato e disprezzato, protetto e percepito come qualcosa da cui differenziarsi, un elemento da tutelare, ma anche con cui è necessario ridurre al massimo i contatti.
In molte altre raffigurazioni dello stesso soggetto da parte di altri autori la donna tocca il corpo dell’uomo, lo guarda direttamente con uno sguardo quasi complice, tende a sottolineare in vari modi l’esistenza di un rapporto speciale fra lei e il padre, ma qui tutto ciò è completamente assente.
La figura della donna è ben altro che “una giovane isterica che offre il petto a un vecchio”, come commentava solo pochi anni fa il critico francese Berenson; ella è la metafora stessa del contenuto del messaggio di Cristo letto nella sua più naturale semplicità.
L’uomo è pieno di necessità inderogabili, commette numerosi errori che hanno bisogno di essere compresi e perdonati prima che sia troppo tardi, ha un’avidità di vivere, di succhiare la vita (come fa letteralmente la figura del vecchio) che non è controllabile, e può essere perfino scomposta (come ci mostra la goccia di latte che egli si è fatto cadere sulla barba).
Egli è naturalmente debole, ma è dotato di una volontà che, se ben esercitata, può renderlo forte e capace di andare oltre i suoi limiti a immagine e somiglianza di Cristo.
Non è il martire fondamentalista e anche un poco ottuso della iconografia prediletta dalla chiesa cristiana (non a caso Caravaggio utilizza nel quadro l’immagine di uno dei pochi santi che non è un martire), e non è nemmeno un essere che la fede rende capace di sopportare qualsiasi travaglio in vista della Grazia.
Come tutti gli altri esseri viventi l’uomo è un soggetto senziente, pienamente sottomesso alla necessità e al dolore, eppure può diventare uno strumento mediante il quale il bene si fa concretamente, come è tipico della triade dell’Azione alla quale il tipo Otto appartiene e che è rappresentato nella parte alta dell’Enneagramma.
In questo modo il quadro riesce a essere ricco non solo di carità, ma anche di un amore decisamente carnale ed emozionale, pur non mostrando apertamente.
A noi spettatori sembra così di vedere dipinte, come le può intendere un Otto, le parole con le quali Chico Buarque quasi cinquecento anni dopo avrebbe spiegato il rapporto fra l’uomo, i suoi bisogni imprescindibili e il suo creatore: “Perfino il Padre Eterno da così lontano/ guardando quell’inferno dovrà benedire/quel che non ha governo ne mai ce l’avrà/quel che non ha vergogna ne mai ce l’avrà/quel che non ha giudizio.”