di ALBERTO TONON
Il passato è come uno specchio rotto. Mentre lo metto insieme mi taglio…un’immagine riflessa in continuo movimento, e io cambio con lei. Potrebbe distruggermi? Condurmi alla follia? O risultare illuminante? Teseo aveva a disposizione un gomitolo di lana per orientarsi nel labirinto del Minotauro, e Pollicino aveva a disposizione delle briciole di pane per segnare il sentiero. Senza perdersi in labirinti pieni di fantasmi da decapitare, da adulti possiamo partire da quelle briciole, ormai divenute solchi, frammenti di un percorso e di una esperienza da ripercorrere, per ricongiungerci con il nostro bambino interiore.
Affermare che esistano due tipi di persone, quelli che passano la vita a costruirsi un futuro e quelli che la trascorrono a ricostruire un passato, è fuorviante. Rivivere il passato senza brancolare nella oscurità, per comprenderlo nel profondo, è come accendere una candela in una stanza oscura. La fiamma illumina la nostra presenza e offre a noi stessi il dono di un presente più consapevole, meno condizionato dalla meccanicità del nostro ego.
Per troppo tempo io ero rimasto nel mezzo, nascosto nell’ombra. Da qualche parte, dentro di me, il bambino piangeva ancora. Da adulto ho realizzato che da piccoli ci hanno raccontato la favola sbagliata della bella addormentata. Il principe non la svegliò con un bacio, perché chi dorme per troppo tempo non può riaprire gli occhi. Il principe la baciò per provare a svegliarsi lui dal suo incubo.
L’Enneagramma, almeno secondo la visione di Antonio Barbato, ci guida e ci illustra come da bambini molto piccoli si diventa un Tipo, come si sviluppa la Passione Primaria in ognuno di noi, come scegliamo emozionalmente il comportamento che ci fa sentire più sicuri in risposta e in adattamento all’ambiente. E quella risposta adattata diventa fissa, apice frastagliato di un cerchio imperfetto. Quando ci guardiamo alle spalle vediamo dei rami, come un bonsai sfrondato o un fulmine biforcuto. Se avessi fatto una scelta diversa non sarei lo stesso Alberto, sarei qualcun altro, intento a guardarsi indietro e a porsi domande di tutt’altro tipo.
L’illusione arriva in seguito, quando ci chiediamo Perché io? E se magari? La realtà non è mai come crediamo che sia, magistralmente celata agli occhi del nostro ego da un Sistema Difensivo che ci impedisce di contattare quello che maggiormente potrebbe minare le certezze del nostro intero essere. Eppure la morte è inevitabile. Il timore che ne abbiamo ci fa evitare ogni rischio, blocca le nostre emozioni. È un gioco a perdere perché, senza Passione, siamo morti.
È tutta una questione di punti di vista, legati a tempo e luogo, amore e amicizia, vita e morte. Tutto è soggettivo. Le scelte, le risposte, il bene e il male. Einstein aveva ragione, il tempo è relativo per gli occhi dell’osservatore. Quando guardiamo dentro un buco nero il tempo rallenta e la vita ci passa davanti in un baleno, con tutte le sue ferite e le sue cicatrici. Possiamo vivere una vita intera in una frazione di secondo.
Come bambino Enneatipo 2 sono figlio del triangolo maggiore rappresentato all’interno del simbolo dell’Enneagramma. Figlio della rabbia, della paura, della vergogna. Figlio di quella rabbia inespressa che ci prende quando la propria dimensione fisica non viene custodita e protetta, ma violata o allontanata. Figlio di quella paura legata alle conseguenze della manifestazione di un proprio comportamento, di quei lividi che bruciano sopra e sotto la pelle, figlio di quella vergogna di aver bisogno di esprimere sé stesso e di elemosinare, quale forma di guida e di accompagnamento, uno straccio di filo di Arianna. Un bisogno che viene spezzato da quella dimensione adulta che si nasconde e si giustifica in nome dell’amore di sé stessi anziché dell’altro, e che ci rende vulnerabili segregandoci in una sorta di binario cieco dove siamo tenuti e chiamati a sopravvivere.
Esseri forti nell’anima, esseri umani eletti, abituati anche a non morire. Almeno così ho creduto …
Questo l’ho imparato fin da bambino, ed è la mia Passione, la mia apparente e illusoria promessa di piacere che nasconde un dolore più profondo. Eppure, oggi, sento che è giunta l’ora di smettere di dare troppa importanza a tutto questo, senza cancellarlo e, tuttavia, senza rinnegarlo, senza fingere che non sia mai esistito, perché la lettura delle esperienze della vita è il patrimonio sia mio che di ognuno. Quelle espressioni non possono essere modificate, o cancellate, sono espressioni silenti o urlate della nostra forma passionale, ma nel loro significato intrinseco possono essere rivisitate, disponendoci ad accogliere un più ampio alfabeto esistenziale a favore di una consapevolezza più strutturata.
Primi passi e ritmi di una danza non/danza, danza di vita, del respiro, del sentire. Quello dell’ascolto attivo, onesto, consapevole, di una illusione radicata e della sua difesa strenua. Della ascesa dall’inferno, al di sopra del quale non vi è più un Dio salvifico, almeno come me lo ero immaginato, e non vi è al contempo nemmeno più un Demonio, almeno nel potere con il quale l’avevo alimentato. Qualcosa che non è un destino, ma che mi sono creato da solo. Me lo sono costruito in risposta ai miei bisogni non espressi, non dichiarati. L’ho nutrito con le mie paure, l’ho alimentato con la mia vergogna, l’ho saziato con la mia rabbia. Certo, sono sopravvissuto, eppure vi è una differenza abissale tra la sopravvivenza e la esistenza. Se vi è mera necessità verso la prima, non vi è scusante verso l’altra. Eppure, quel momento per me stesso, debbo volerlo, realmente, intimamente.
Devo essere disposto a chiudere gli occhi per osservare, ascoltare, e sentire. Per ritrovarmi con me stesso bambino, per osservarlo a distanza, in punta di piedi, senza invaderlo, anche se vorrei istintivamente abbracciarlo, perché fermato dal timore di essere inappropriato e inadeguato. Alberto bambino è ora dinnanzi a me, nella sua cameretta, con il suo orsetto, con il suo quaderno, con le sue matite colorate, alcune delle quali hanno la punta e altre ne sono prive, perché se la punta non la squarta apposta non può vivere nella mancanza e nel desiderio, perché dimostra a sé stesso che è in grado di patirlo, di sorreggerlo, e di attraversarlo. Per infine brillare, come una luce tenue che riscalda e conforta, quando la punta si ricrea, con quel temperamatite di cui dispone, perché se la matita è più corta, è anche più forte, affilata e splendente. Vi è una grandezza in quel piccolo nascosta agli occhi di chi vede, ma visibile agli occhi di chi è cieco. Il cuore pulsa di vita, incompreso, ma straordinario nella sua grandezza. E piange e ride al contempo.
Questo sto osservando, questo è il mio Alberto bambino, sono io. Vorrei accarezzarlo, ma ho paura della sua reazione. Sento istintivamente che ha bisogno di affetto, di comprensione, ma non la chiede. É orgoglioso, questo lo avverto, per cui mi siedo e continuo a essergli accanto. Inizio a raccontargli una storia che parla di me adulto, con la speranza di incuriosirlo, di rendermi accettabile alla sua presenza. Sto tremando, ma posso farcela, anche se la voce tentenna e ho il cuore in gola. Una storia ancora da scrivere, ma che ora possiede in dono una bussola e indica una direzione.
Quella delle responsabilità di adulto a cui sono chiamato come uomo, come compagno di una donna che mi vive accanto e come genitore, ma anche quella dei diritti personali. Quella del diritto, rivisitato in chiave adulta, di chi si offre il permesso e la responsabilità di superare quell’irrazionalità infantile che, per troppo tempo, lo ha indotto a credere che debba modificarsi, adattarsi o cancellarsi nei confronti delle persone amate, per evitare che queste crollino e per paura di essere da loro criticato, non voluto, o peggio, abbandonato.
Ora so che ho il diritto di dire: “non lo so”, “non mi interessa”, come pure “non sono capace”.
Cosa io voglia, in realtà, non me lo sono mai veramente chiesto. O me lo sono chiesto senza trovare risposta. O, forse, quando qualcosa ha iniziato in me a bussare, ne ho avuto paura, ne ho avuto vergogna. Ho sempre avuto la percezione che la morte, risarcendo gli uomini integri per la scarsa equità patita in vita verso di loro, sia dispensatrice di una giusta gloria. Resta il fatto che quando non ci sarò più il gioco sarà finito, e che è solo in vita che posso esprimere qualcosa di me stesso.
Ho il diritto di provarci, di sbagliare e di imparare dai miei errori, ho il diritto di non essere una calamita che mi attira verso gli altri, sacrificando emozioni, dignità, bisogni, pensieri, aspirazioni ed ideali. Ho diritto, pertanto, a essere indipendente dalla ricerca della benevolenza degli altri.
Ed ecco che metto al suo posto l’ultimo pezzo di un puzzle e mi accorgo di come l’immagine mi rappresenta, mentre completo lo stesso puzzle, con un assassino psicopatico al mio fianco. Una figura funesta che posso imparare a lasciare andare. Perché ho il diritto, ma anche la responsabilità ora che sono divenuto adulto, di lasciarla andare. Un momento umano e troppo umano, al contempo. Come molti altri, ma posso oggi riconoscerli, identificarli, dare loro una voce, fermarmi, riconoscere che non c’è una unica risposta ma tante vie, non di uscita necessariamente, ma del manifestarsi, dell’esprimersi.
Alberto bambino si è voltato verso di me. Forse ho mosso qualcosa che ha destato la sua attenzione. Forse stiamo parlando assieme di noi stessi per la prima volta, con uno strumento guida, quello dell’Enneagramma, e anche se ci separano anagraficamente diversi anni, stiamo parlando l’uno dall’altro. Anche se le emozioni hanno deciso e scritto una storia incidendola sulla pietra, rendendola nel tempo fossilizzata, è oggi il momento dei cartoni animati, quel momento in cui la gravità attende che Willy il Coyote realizzi di non aver la terra sotto i piedi prima di farlo precipitare. E ci fa sorridere entrambi. E il sorriso, quello proprio, per diritto di nascita, allontana i fantasmi.
La tempesta sembra aver perso forza. Le nubi lasciano intravedere le stelle. Non posso evitare la realtà, ma posso renderla più gradevole, accettando di vivere una paura differente e non familiare che ci rende inadeguati, quella del nuovo rappresentato dall’ignoto, che implica uscire dalla propria zona di comfort. Una cosa è voler vivere un’altra è prepararsi a vivere, dal momento che la vera nascita non è quella fisica, bensì quella della coscienza.
Una storiella persiana ci ricorda che due uomini guardavano attraverso le sbarre della loro prigione. Uno vide le stelle del cielo, l’altro il deserto. Cosa notiamo, per iniziare? Che i due uomini, indipendentemente da quello che gli fa piacere vedere, sono in una prigione. Ne sono davvero consapevoli, sono persi nei loro vaneggiamenti, o accettano la loro situazione per quella che è? E, se vogliono cercare di adoperarsi per liberarsene, cosa risulta essere necessario? Pensiamo anche a questo: chi è stato per tanto, troppo tempo, all’interno di una prigione, può trovare conveniente restarci. Perché ci illudiamo che quel gioco, sin troppo noto, siamo in grado di gestirlo anche se ci assorbe e abbiamo imparato ad accettarlo persino a volerlo, e a ricercarlo.
Una prigione senza luogo, senza tempo, senza indicazione alcuna del peccato commesso da coloro che si trovano al suo interno. Senza sapere se all’esterno vi sia qualcuno o qualcosa ad attenderli, da quanto tempo siano lì e per quanto tempo ancora. Poco importa su cosa e verso dove rivolgiamo lo sguardo. In realtà, ognuno di noi tende a focalizzarsi su alcuni elementi esistenziali e a escluderne altri, per la tendenza della mente umana alla distrazione, e ciò ci conduce a quell’auto assorbimento che diviene una modalità attraverso la quale impariamo a strutturare il nostro tempo, attribuendogli un significato cristallizzato e passionale.
Scorciatoie, vie di uscita miracolose, semplicemente non esistono. Eppure qualcosa sta pulsando. Sarebbe così semplice se fosse sempre così, ma questo pulsare, che è del respiro, del cuore, solo a volte avviene. In altre una scorza trasparente si frappone costante e restiamo separati dal nostro io più autentico. Ci innamoriamo dei buchi neri per poi imparare, attraversandoli, a disinnamorarcene, e ad amare una vita ancora da scrivere.
Cosa sta facendo ora Alberto, mi domanda l’Enneagramma? È questo l’unico modo che quest’uomo conosce per vivere, per viversi? Da tempo la semplicità è lontana da me, ma per quanto Alberto adulto si sia emarginato a sé stesso esistono sistemi per ritrovarla. Sentieri di pace, sentieri di perdono, sentieri di responsabilità, sentieri tutt’altro che lineari e scorrevoli. L’Enneagramma per me è compagno di vita, una chiave per aprire una porta che tende a richiudersi dentro o davanti a me.
Forse un giorno vedrò chiaro come questa porta, chiusa o aperta che sia, semplicemente non esiste.
Forse vedrò chiaro, allora, come non vi siano sentieri, né luoghi né mete. Come non vi sia dove andare né da dove venire. Come non vi sia neppure io, neppure tu. E come allo stesso tempo tutto, tu e io compresi, esistiamo. Forse vedrò chiaro allora come essere e non essere già coincidano qui ed ora. O forse sarà inutile dare forma alla trasformazione. La trasformazione è già qui, è noi, è tutto ciò che esiste. La sua forma è la nostra.