Anche per questa passione dobbiamo abituarci ad un significato della parola diverso da quello dell’uso corrente. Questa passione non consiste tanto in un odio per la felicità degli altri, come la descriveva Sant’Agostino, quanto, piuttosto, nella percezione conscia di un senso di carenza, e di imperfezione interiore (anche se non mancano persone reali e personaggi di questo tipo che sono apertamente invidiosi e distruttivi verso l’altro). Il desiderio di colmare questa lacuna provoca un’incessante ricerca d’amore che non riesce, tuttavia, mai a soddisfarsi, poiché il raffinato superego di queste persone impone loro di non accontentarsi mai di qualcosa che sia meno che perfetto. Il Quattro si sente così come una specie d’angelo caduto per proprio demerito dal Paradiso e soffre molto per questa sua “cattiva” immagine di se. Il dolore e i sensi di colpa sono percepiti in modo conscio e conducono, spesso, ad una tendenza al lamento e alla depressione aperta o strisciante. L’Invidioso valuta sempre come più importante (non importa se persone, cose o situazioni), quello che non ha e non c’è, piuttosto che quello che gli appartiene. Ogni cosa è ardentemente desiderata e percepita come indispensabile, tuttavia, quando finalmente viene ottenuta, essa perde l’attrattiva che sembrava avere prima. In questo processo l’idealità gioca un ruolo di primo piano, poiché il tipo Quattro è quello che con maggior costanza paragona la situazione reale con un modello di perfezione irraggiungibile, rilevandone le mancanze. Si crea così un caratteristico e doloroso “tira e molla” secondo il quale, ad esempio, si vedono solo le caratteristiche migliori del partner finché esso è lontano, ma non sfuggono nemmeno le più minute imperfezioni quando esso è vicino. Tale attitudine porta anche a rivivere emotivamente tutte le situazioni del passato ammantandole di un velo di dolce tristezza e malinconia e, correlativamente, a sentire sempre di avere effettuato scelte sbagliate, sminuendo così le situazioni della vita presente. Quest’atteggiamento esistenziale trova uno sfogo naturale nella creatività artistica, che è anche un mezzo per dare sollievo al tormento prodotto dalla percezione della propria manchevolezza. Non è, pertanto, strano che questo tipo sia quello in cui più abbondano gli artisti, in particolare quelli legati ad una visione che considera la vita come una forma di pathos universale. L’empatia per i poveri, i maltrattati e i sofferenti è molto viva in questo tipo, poiché il Quattro s’identifica facilmente con la loro condizione. Dato il modello culturale della nostra società, in cui il genere maschile è quello dominante, molte donne Quattro hanno, in base a questa sensibilità, partecipato in prima linea nei movimenti di emancipazione femminile. Profondamente radicato nei suoi sentimenti, l’Invidioso sente di percepire le cose con tanta sensibilità e profondità da non potere essere compreso dagli altri e ciò lo fa profondamente soffrire. Al tempo stesso, tuttavia, preferirebbe rinunciare a tutto ma non a questa sua sensibilità dolorosa mediante la quale sente di essere pienamente vivo. Per questa ragione il Quattro è il tipo che dà la maggiore importanza alla capacità degli altri di decodificare i messaggi, spesso elusivi, che si nascondono dietro le sfumature del suo comportamento e ritiene che chi lo ama debba necessariamente comprendere i suoi desideri profondi. L’elevata emozionalità si riflette anche sul piano umorale, provocando continui ed immotivati alti e bassi che riflettono dei repentini passaggi fra momenti d’esaltazione e di un’occulta depressione. Nonostante tutto ciò l’Invidioso è anche fondamentalmente un ottimista e, come nelle parole della canzone Il Manichinodi Renato Zero, “spera sempre che la sua sorte cambierà” , ed è convinto come Luigi Tenco (ambedue i cantanti appartengono al tipo Quattro), che “non so dirti come o quando ma un bel giorno cambierà”. La raffinatezza, anche estetica, è un valore molto importante per gli Invidiosi che hanno uno spiccato e deciso “gusto” interiore, che traspare in ogni loro manifestazione. Così, ad esempio, un tipo Quattro parlerà e si vestirà in un modo che possa far trasparire all’esterno almeno un segno della propria “nobiltà” di sentimento. Più generale si può affermare che il Quattro non si accontenta mai della normalità, che appare ai suoi occhi spesso soltanto banalità, e personalizza ogni cosa che fa con una nota di colore, d’accento, che esprime in modo sottile la sua percezione della bellezza ideale.
Le capacità artistiche del Quattro fanno sì che fra i rappresentanti di questo tipo abbondino i poeti, i romanzieri, i cantanti, i pittori e gli attori. Fra questi ultimi segnaliamo subito Marilyn Monroe che, nonostante sia nell’immaginario collettivo il simbolo stesso della bellezza femminile, era totalmente insoddisfatta del suo aspetto. E’ ben noto il fatto che Marilyn distruggesse con le forbici album interi di fotografie, trovando sempre qualcosa che la rendeva insoddisfatta dell’immagine che trasmetteva. In realtà e nel tipico modo dei Quattro, quello che faceva disperare la povera Marilyn era che nessuna foto poteva esprimere il dolore profondo del suo cuore; il disperato bisogno d’amore che era restato insoddisfatto per tutta la sua vita. Molto simile a quella di Marilyn Monroe è anche la parabola umana di James Dean, altro celeberrimo attore che apparteneva a questo tipo. In genere gli attori di questo tipo riescono sempre a trasmettere ai personaggi che interpretano un’aura romantica e una sensibilità profonda, che spesso sono assenti nei copioni. Questo è il caso, ad esempio, di Viviane Leigh nella sua celebre interpretazione di Rossella O’Hara, che è invece un tipo Tre quintessenziale, di Robert De Niro nel film Il Cacciatore (il cui personaggio secondo la trama è invece un tipo Uno) o in Toro Scatenato (dove interpreta il ruolo del pugile Jack La Motta un tipo Otto), di Judy Garland. Nell’elenco infinito dei personaggi letterari che appartengono al tipo Quattro mi limiterò a citare, perché ognuno di essi esemplifica una distinta tendenza di questa passione, Edmont Dantes protagonista de Il Conte di Montecristo di Alexander Dumas padre, Jago nella tragedia Otello di Shakespeare (cui sono strettamente imparentati la Cugina Bette protagonista dell’omonimo romanzo di Honorè de Balzac, Uria Heep in David Copperfield di Charles Dickens e Shylock nel Mercante di Venezia), Anna Karenina protagonista del romanzo omonimo di Tolstoj e Jean Valjean protagonista de I Miserabili. Jago è l’esemplificazione dell’Invidia distruttiva, dell’odio che si nutre in silenzio distruggendo prima la propria anima e poi, per una forma di rivalsa e di distorta giustizia, quella degli altri che hanno la fortuna di averne un’ancora integra. All’inizio della tragedia sembra che Jago sia mosso solo da una forma d’insana gelosia verso Otello ma non è così. Nel monologo interiore del primo atto, egli dice fra se: “Odio il Moro…Si è anche bisbigliato, qua e là, che egli mi abbia sostituito nel dovere coniugale fra le mie lenzuola. Non so quanto sia vero, ma per un semplice sospetto del genere io agirò come se avessi la certezza. Di me egli fa conto; e tanto meglio agiranno su di lui le mie macchinazioni. Cassio è un bell’uomo…Vediamo un po’…Prendergli il posto e far culminare il mio piano in un doppio colpo..” In queste due parole c’è la spiegazione della profonda motivazione di Jago. Otello e Cassio sono ambedue odiati perché hanno qualcosa che lui sente di non avere (il primo la gloria e l’amore, il secondo la bellezza e la purezza); qualunque pretesto è valido per nutrire questo sentimento. Nella scena in cui Jago progetta la morte di Cassio questi sentimenti diventano consci e Jago afferma: “Non deve essere; se rimane Cassio, egli ha una quotidiana bellezza nella sua vita, che fa brutto me”. La potenza di questa sensazione è tale che essa cancella ogni forma di speranza, auto rispetto e considerazione, suscitando nell’animo di un Invidioso una profonda disperazione che può trovare sollievo solo nella distruzione dell’oggetto invidiato e, quindi, nell’eliminazione del doloroso raffronto con esso. Shakespeare, che era anche lui un tipo Quattro, conosceva perfettamente la potenza devastante di questo sentimento, che toglie alla vista di occhi annebbiati dall’odio ogni speranza. Le sorprendenti parole finali del dramma, infatti, possono essere comprese pienamente solo se si è consapevoli dell’incapacità nel soddisfarsi, che nutre segretamente l’odio invidioso. Dice Lodovico rivolto a Jago: E tu, cane spartano, più insaziabile del dolore, della fame o del mare! Guarda il tragico carico di questo letto! E’ opera tua. Uno spettacolo che avvelena la vista! Nascondetelo!”. In Anna Karenina, invece, la speranza di poter avere il vero amore non è persa e possiamo vedere in azione la tendenza del Quattro a lanciarsi a capofitto in qualunque situazione possa far balenare la possibilità di ottenere la soddisfazione di questo desiderio. Anna non esita, infatti, a chiedere il divorzio ed a seguire all’estero il suo nuovo amore, pur sapendo che in questo modo avrebbe perso per sempre il proprio bambino, la persona che più amava al mondo. L’angoscioso crescendo di sensi di colpa, gelosia, tristezza e vergogna che accompagnano Anna, corrodono lentamente il suo mondo interiore e la conducono verso l’autodistruttivo finale, ma non sono ancora in grado di distruggerla finché essa nutre la speranza di potere essere ancora amata come all’inizio della loro relazione. Il drammatico punto di svolta arriva quando, nel corso di un tempestoso colloquio con Vronsky, Anna si convince che la speranza è persa per sempre e il suicidio è il solo mezzo per ottenere l’eterno amore del proprio amante. Vediamo le parole che Tolstoj mette in bocca e nella mente di Anna: “Cosa posso volere? Posso solo volere che tu non mi lasci, come stai pensando di fare”, lei disse, capendo quello che lui aveva taciuto. “Ma questo è secondario. Quello che voglio è l’amore e non ce n’è più. Perciò tutto è finito”. ..Si, morire! Lei pensava. La vergogna di Karenin (il marito che lei aveva lasciato) e il suo disonore, e quello di Seryoza e la mia stessa terribile vergogna, tutto sarà cancellato dalla mia morte. Morire- così lui (Vronsky) proverà dolore, mi amerà e soffrirà per me. Con un sorriso fisso di pietà verso se stessa lei era seduta nella poltrona, togliendosi e mettendosi gli anelli della mano sinistra, e rappresentando vividamente a se stessa da ogni angolatura i suoi sentimenti dopo la sua morte. E’ importante notare come in queste fantasticherie suicide, che spesso affliggono i Quattro, sia sempre presente un elemento di vendetta verso l’altro che ha tradito le aspettative d’amore che loro nutrivano. Anche in Edmond Dantes si può vedere in opera il desiderio di rivalsa e di vendetta caratteristico del tipo Quattro, ma qui esso assume quelle forme di raffinatezza e di durata nel tempo che differenziano la vendicatività di questo tipo, da quella molto più immediata e diretta che vedremo in azione nel tipo Otto. Dantes studia con l’acutezza psicologica di questo tipo, i principali difetti dei suoi nemici che congiurarono per la sua rovina e li colpisce facendo provare loro lo stesso dolore che aveva provato lui, ma, a differenza di Jago e Anna Karenina, è sempre sorretto dalla speranza che sostiene chi è uscito indenne dai più cupi momenti della disperazione. La sua profonda sensibilità appare evidente in molti episodi del libro e traluce in pieno nel seguente brano che chiude il romanzo: Dite all’angelo che veglierà sulla vostra vita, Morrel, di pregare qualche volta per un uomo che, simile a Satana, per un momento si è creduto simile a Dio, e ha riconosciuto con tutta l’umiltà di un cristiano, che nelle mani di Dio soltanto sta il supremo potere e l’infinita sapienza. Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi che porta con se nel profondo del cuore. In a quanto a voi, Morrel, ecco tutto il segreto della condotta che ho tenuto verso voi: non vi è né felicità né infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato ad un altro, ecco tutto. Quegli solo che ha provato l’estremo dolore è atto a gustare la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, Massimiliano, per sapere quale bene è vivere. Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole:aspettare e sperare. Ancora più intensa e capace di comprensione e d’effettiva empatia per l’altro e la luce che illumina Jean Valjean, dopo che Monsignor Benvenuto ha lavato la sua anima dall’odio che l’aveva avvelenata, con un atto di profondo amore e rispetto per la sua fragilità umana. Ecco le parole con le quali Hugo descrive l’effetto prodotto sull’animo di Valjean dalle parole e dalle azioni del vescovo: Non poteva rendersi conto di quel che succedeva in lui, si irrigidiva contro l’azione angelica e contro le dolci parole del vecchio: “Voi mi avete promesso di diventare un uomo onesto. Io compro l’anima vostra, la tolgo allo spirito delle perversità e la do al buon Dio”. Ciò gli ritornava di continuo in mente. Opponeva a questa indulgenza celeste l’orgoglio, che è in noi come la fortezza del male. Capiva vagamente che il perdono di quel prete era il più grande assalto e il più formidabile attacco dal quale fosse mai stato scosso; che il suo indurimento sarebbe divenuto definitivo se avesse resistito a quella clemenza; che se cedeva avrebbe dovuto rinunciare a quell’odio di cui le azioni degli uomini avevano riempito la sua anima durante tanti anni, e che gli piaceva; che questa volta bisognava vincere o essere vinti, e che la lotta, una lotta colossale e decisiva, era ingaggiata tra la sua cattiveria e la bontà di quell’uomo. Davanti a tutto quel bagliore, brancolava come un ubriaco. (…) Jean Valjean pianse a lungo. Pianse a calde lacrime, pianse a singulti, con più debolezza di una donna, con più spavento di un bambino. Mentre piangeva, nel suo cervello si faceva sempre più luce, una luce straordinaria, una luce stupenda e terribile nello stesso tempo. La sua vita passata, la prima colpa, la lunga espiazione, l’abbrutimento esteriore, l’indurimento interiore, il riacquisto della libertà rallegrata da tanti piani di vendetta, ciò che gli era accaduto dal vescovo, l’ultima cosa che aveva fatto, quel furto di quaranta soldi ad un ragazzo, delitto tanto più vile e mostruoso in quanto veniva dopo il perdono del vescovo, tutto ciò gli ritornò alla mente e gli apparve chiaramente, ma in una chiarezza che sino allora non aveva mai visto. Guardò la propria vita, e gli parve orribile: la propria anima, e gli sembrò spaventosa. Tuttavia una luce dolce era su quella vita e su quell’anima. Gli sembrava di vedere Satana alla luce del Paradiso. Nel resto del romanzo Valjean mostra i lati migliori di un Quattro in pace con se stesso, che ha indirizzato la sua fortissima sensibilità non più verso le sue mancanze, ma verso l’aiuto concreto agli altri.