La Paura era, come ho già rilevato nella parte introduttiva, una delle due passioni non ricomprese nella tradizionale lista dei Peccati o Vizi Capitali. Ciò era, probabilmente, dovuto a due diversi motivi. Da un lato, in un’ottica cristiana medioevale, la paura, o timor di Dio, non era considerata un elemento negativo, poiché essa, attraverso il ricordo del giudizio e del castigo eterno, portava l’uomo ad assoggettarsi alla legge ed all’ordine sociale. Dall’altro lato bisogna dire che le dinamiche stesse di questa passione non erano ben comprese. La varietà dei comportamenti indotti dalla passione della Paura, infatti, è tale che, a prima vista, sembra esserci poco in comune fra molte persone appartenenti a questo tipo. Se, infatti, è piuttosto facile comprendere che sono certamente dominate dalla Paura le persone che anche nel linguaggio comune sono denominate fobiche, quelle, in altre parole, che hanno uno stile di vita dominato dall’insicurezza o da fobie in parte esplicite, non è altrettanto facile vedere in opera a livello motivazionale la Paura in quelle persone chiamate controfobiche, che agiscono con una forte aggressività di tipo strategico. L’esempio del comportamento del topo che fugge da un gatto, permette, però, di comprendere come i due atteggiamenti siano, in realtà, risposte diverse ad un’unica esigenza. Il topo normalmente fugge davanti ad un gatto, fino a quando ha lo spazio e le forze per poterlo fare, ma, se si trova in una situazione senza via di fuga, si gira ed aggredisce la fonte stessa della sua paura. Questa reazione non è, ovviamente, dovuta ad una forma di coraggio, ma ad un’istintiva difesa che è messa in azione dalla Paura. Nel gioco degli scacchi per esprimere bene questo concetto, si usa il seguente detto che con efficacia mette a fuoco il mondo interno di un Pauroso, “la minaccia è molto più forte della sua esecuzione”. Con tal espressione s’intende rilevare come l’idea di un rischio che ci sovrasta, può essere molto più insopportabile per la nostra psiche, che il fatto di affrontare concretamente il pericolo stesso. La maggior parte dei Sei pur essendo prevalentemente fobici o controfobici, mostrano nei loro comportamenti tratti di entrambe le reazioni. Questa tipica alternanza si estende a quasi ogni comportamento possibile ed è spesso descritta col termine ambivalenza. Esiste, tuttavia, un’ulteriore possibilità d’espressione della Paura che può essere, anch’essa, desunta dal comportamento adottato da molti animali all’interno del loro gruppo. In molte specie esiste, infatti, una speciale forma di riconoscimento della superiorità dell’altro, che avviene mediante una serie d’atti con i quali si riconosce l’autorità dell’esemplare dominante e, contemporaneamente, si definisce il proprio posto nella scala sociale del gruppo. In questo modo ogni membro del gruppo sa, sulle basi di questo preciso ordinamento, esattamente qual è il suo ruolo. I paurosi, in genere, sono persone molto cerebrali, nel senso che pensano troppo alle possibili ricadute d’ogni loro singolo atto, e combattono la loro insicurezza richiedendo appoggio e sostegno e mediante una tendenza a prefigurarsi ogni possibile scenario. Per questo tipo è decisivo conoscere qual è il comportamento richiesto dall’autorità e, con la loro tipica ambivalenza, sapere in che modo comportarsi di fronte alle richieste che da essa provengono. Avremo così tre distinti comportamenti che hanno, però, in comune il fatto d’avere origine tutti dall’esigenza di sopire la paura. A differenza di un Cinque, un Sei non si è separato dai suoi sentimenti e dai desideri, ma non sa se può fidarsi di loro (nel senso che non è mai sicuro delle reazioni che gli altri avranno), o se si può permettere di esprimerli liberamente. Un tema centrale per questo tipo è quello dell’accusa e, proprio per evitare possibili colpe, i Sei sentono la necessità di conoscere ogni singolo dettaglio di una data situazione. Il Sei non concede facilmente la propria fiducia ed è molto attento nel cogliere i segnali d’ambiguità o di slealtà. Spesso mette gli altri (in particolare i propri cari), alla prova perché l’intima ambivalenza lo porta a dubitare anche di se stesso e della sua lealtà. Il Pauroso sente una qualsiasi piccola crepa come un’insidia che potrebbe portare al crollo completo e tende perciò ad essere un lucido pessimista, che preferisce prefigurarsi il peggio per essere pronto a qualsiasi evenienza. Per tale motivo questo tipo è spesso descritto come l’avvocato del diavolo, facendo riferimento al ruolo assunto nei processi di beatificazione da un membro del clero, che deve trovare eventuali motivi negativi a carico del futuro possibile santo.
Il personaggio cinematografico del ragioniere Ugo Fantozzi interpretato da Paolo Villaggio (anche lui un Sei nella vita reale), incarna, estremizzandole nella sua grottesca comicità, tutte le tendenze della Paura. Fantozzi normalmente fobico ed assoggettato in modo totale alla gerarchia, ha talvolta delle reazioni controfobiche che oltre ad essere caratterialmente precise, raggiungono i vertici della più esilarante paradossalità. L’episodio della Corazzata Potemkin in cui Fantozzi è costretto a rinunciare alla visione della partita di calcio della nazionale italiana, per sorbirsi l’ennesima replica del film di Ejzenstejn, ci fa vedere in opera la totale soggezione che un Sei ha verso l’ordine e l’autorità. Quando, però, viene chiesto ai presenti il solito giudizio sul film e nessuno trova la voglia di fare il minimo commento, Fantozzi paragona istintivamente la sua reattività interiore a quella degli altri e, sentendosi in quel momento più forte (o forse, più appropriatamente, meno debole), esplode nella sua famosa invettiva che libera catarticamente anche gl’impulsi degli altri fino a quel momento repressi. Sulla stessa linea di condotta di Fantozzi è il personaggio manzoniano di don Abbondio. Stretto nell’opprimente paura delle minacce ricevute dai bravi di don Rodrigo e delle reazioni di Renzo, il buon curato non vede altra soluzione che quella di darsi malato e cercare di guadagnare tempo, nell’attesa che qualcosa o qualcuno possa risolvere il problema senza che lui si esponga troppo. Di fronte alle accuse del Cardinale Borromeo, Don Abbondio cerca in un primo momento di opporre le ragioni che ogni Sei trova sempre per giustificare la sua paura. Il dialogo fra i due personaggi tanto diversi (il Cardinale Borromeo è, infatti, un tipo Uno agli antipodi nell’Enneagramma rispetto al Sei proprio per la sua gran capacità d’azione), merita di essere riportato per intero.
“Domando,” riprese il cardinale, “se è vero che abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.”
“Veramente…se vossignoria illustrissima sapesse…che intimazioni…che comandi terribili ho avuto di non parlare…Però, quando Lei me lo comanda, dirò ,dirò tutto…”.
“Dite; io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.”
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
“E non avete avuto altro motivo?” domandò il cardinale, quando Don Abbondio ebbe finito.
“Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,” rispose questo: “Sotto pena della vita, mi hanno intimato di non far quel matrimonio.”
“E vi par codesta una ragione bastante, per lasciare d’adempiere un dovere preciso?”.
La conclusione del cardinale lascia don Abbondio quasi senza parole, perché egli sente attaccata la norma sovrana della sua vita, ma per nulla convinto delle motivazioni dell’altro. Il suo pensiero corre, infatti, solo alla prospettiva del pericolo che lo minacciava e il Manzoni con grande acume psicologico lo rappresenta benissimo. “I pareri di Perpetua!”, pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a quei discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di quei bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero stare confuso e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di recalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi”.
Questo retro pensiero di don Abbondio che misura il peso dei due pericoli (i rimproveri morali che gli sono rivolti dal cardinale e le minacce fisiche, infinitamente per lui più sentite, dei bravi), fornisce il supporto motivazionale per l’esplosione controfobica finale, nella quale il dubbio e l’ambivalenza del povero curato emergono appieno:
“Gli è perché le ho viste io quelle facce”, scappò detto a don Abbondio; “le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe essere nei panni d’un povero prete, ed essersi trovato al punto.” Appena ebbe profferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: -ora viene la grandine- alzando dubbiosamente lo sguardo.
Questo rapido passaggio da accusato ad accusatore testimonia della capacità del Sei di farsi quasi avvocato della propria paura e di trasformarla in un potente strumento d’attacco verso gli altri. Così nel sottotipo controfobico domina una visione secondo la quale o si attacca o si è attaccati. Quando questa concezione diventa estrema si possono avere comportamenti tesi alla distruzione del nemico, non importa se reale o immaginario, e all’eliminazione d’ogni devianza. La Germania del Terzo Reich è un esempio di quest’inclinazione portata fino alla cieca soppressione di ogni forma di individualità personale e che sfocia, inevitabilmente, in un cupo e sinistro cupio dissolvi. La tendenza del nazismo a richiedere una forma d’aberrante lealtà e a non discutere nessun tipo d’ordine che proviene dai superiori gerarchici, può essere facilmente compresa come l’estremizzazione di tendenze presenti, in ogni modo, nel Sei. Il padre della moderna psicoanalisi Sigmund Freud che apparteneva alla variante controfobica, raccontava, spiegando certi atteggiamenti molto aggressivi verso coloro che contrastavano le sue idee, che egli non avrebbe mai abbassato la testa davanti ad un nemico che lo attaccava. Nonostante quest’atteggiamento da guerriero tipico del controfobico, tuttavia, Freud soffriva di strane fobie che gli rendevano, ad esempio, impossibile viaggiare se al suo fianco non c’era il proprio medico personale, una persona, in altre parole, dotata d’autorità, che lo rassicurasse contro eventuali possibili rischi. Il mondo interiore di un Sei pessimista chiuso spesso nel suo labirinto di pensieri ed incapace di decidersi all’azione prima di essersi sfinito in lunghissime analisi, è stato splendidamente descritto da quasi tutti i più importanti scrittori. Esempi famosissimi sono i personaggi di Amleto, protagonista dell’omonima tragedia di Shakespeare, e di Raskolnikov, figura centrale del romanzo Delitto e Castigo di Dostoevsky. L’ambivalenza e il pessimismo di Amleto sono i motori che guidano ogni sua azione. Nella lettera che scrive ad Ofelia, Amleto esplicita così la sua visione della realtà: Dubita che le stelle siano fuoco, dubita che il sole si muova, dubita che la verità sia bugiarda, ma non dubitare del mio amore. Quasi un manifesto programmatico della mentalità del Sei che considera il mondo come un luogo d’incertezze, che solo l’assoluta lealtà delle persone amate può rendere più sopportabile. Nel successivo dialogo con Polonio l’infelice principe esprime in poche e lucidissime parole l’inclinazione del Sei di cercare dietro l’apparenza evidente, il lato nascosto delle cose, fino a confondere l’ombra con la realtà. Queste le parole:
Polonio: Onesto, monsignore?Amleto: Sì, perché rimanere onesto come è fatto il mondo, è dato ad un uomo sopra diecimila. Polonio: Grande verità, monsignore. Amleto: E dato che il sole sa far nascere vermi dalla carogna di un cane- voi avete una figlia? Polonio: Sì, monsignore. Amleto: Che non passeggi al sole. Concepire è una benedizione, ma attento, amico a come potrebbe concepire vostra figlia.
Il celeberrimo monologo del terzo atto è un crescendo che partendo dal doloroso dubbio iniziale (Essere o non essere, ecco il problema), procede attraverso un distaccato esame della condizione umana, fino a culminare in una disperata cognizione degli effetti più deleteri della Paura: E’ la coscienza che ci fa vili, quanti noi siamo. Così la tinta nativa della risoluzione si stempera sulla fiacca paletta del pensiero, imprese di gran portata e momento insabbiano il loro corso e perdono il nome d’azione”. Nelle parole di Amleto si rispecchia una profonda verità che è frutto delle necessità della vita: qualunque impulso ad agire deve essere dotato di una sua specifica forza, per superare le barriere del pensiero e potersi così esprimere nel mondo esteriore. Il personaggio di Raskolnikov, frutto della penna di Dostojevskj che era anche lui un Sei, mostra nel succedersi degli eventi del romanzo sia l’implacabile forza che l’accusa ha nella mente di un pauroso, sia il barcollante cammino che può condurre le persone di questo tipo verso la liberazione. Lo stesso percorso di Raskolnikov, ma ad un ben più alto livello, è quello percorso dal pescatore Simone di Giovanni, che dalla colpa di aver tradito, in una notte intinta di angoscia e confusione, tre volte il suo messia per paura, assurse, attraverso la sperimentazione della grazia, al livello di primo fra i fedeli della nuova religione di Cristo. L’episodio, tramandatoci dalla tradizione cristiana, del Quo Vadis, ci mostra, però, come la Paura sia, forse, il più tenace e pervadente sentimento umano e, correlativamente, come l’esempio e la rassicurazione di una figura autorevole sia sempre per un Sei una benedizione che può sopire qualunque Paura e condurre fino ai gradi più elevati della trascendenza.