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Questo argomento contiene 1 risposta, ha 1 partecipante, ed è stato aggiornato da  Eleonora 13 anni, 2 mesi fa.

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  • #650 Risposta

    Utente Ospite:Ameliè

    “Ci ho messo un sacco di tempo a capire cosa fosse una fotografia. Non era roba che mi interessasse. L’immagine più vivida era sempre l’ultima, e cancellava ogni traccia delle altre. Non vedevo la necessità di tanti feticci. Preferivo sempre l’aspetto più recente di coloro che amavo. Mi sarei sentito infedele a provare una tenerezza eccessiva per com’erano stati un tempo. Nelle fotografie di ieri, quegli uomini donne e bambini erano “noi”, anni trascorsi a parte. Vivevano in un altro tempo dove nulla di ciò che conoscevano ci riguardava davvero. Erano più giovani, ma di una giovinezza a malapena invidiabile essendo quella di corpi differenti e non più reali, laddove noi possedevamo su di loro il vantaggio (del tutto relativo) di esistere ancora. Diventava indispensabile un intenso sforzo dell’immaginazione per abitare con la mente una di quelle immagini. Bisognava attribuire dei pensieri a tutte quella sagome vagamente familiari sedute al sole, sguardo fisso nell’obiettivo, a simulare (da pessimi commedianti) occupazioni banali in una maldestra messinscena della vita. Forse allora eravamo più felici…ma queste parole non avevano realmente senso, a pensarci bene. Cosa significava questa “felicità”, che forse era stata nostra ma che non era più attestata da nessuna esperienza autentica? E chi mai indicava i realtà quel “noi”? Se noi eravamo “noi” oggi, non potevamo assolutamente esserlo stati ieri. E se loro, dentro l’immagine, nell’ostentazione inutile e insolente della loro felicità, erano “noi”, chi potevamo essere noi, qui, a osservarli dallo scoramento triste della nostra vita?”…”per capire mi mancava qualcosa. La morte non è necessaria per dare senso ai simulacri, però occorre almeno la possibilità del suo orizzonte. Di un “se” la cui forma viene bloccata già s’indovina l’ineluttabile cancellazione.”..”Gli album: cimitero, nido d’infanzia, collezione di sepolture ingenue. Ho letto da poco, grazie alla penna di uno scrittore, che ogni foto è una pietra tombale. Quello scrittore rifiutava di farsi “prendere”. L’ultima parola della saggezza: noncuranza verso il proprio cadavere. Le persone capaci di disinteresse riguardo al divenire della propria salma sono rare quanto quelle in grado di considerare con la più completa indifferenza la massa di carne nella quale si trasformano, ogni qualvolta vengono puntate dalla lente oltremodo volgare di un obiettivo.”…”né foto, né compleanni, unicamente lasciare che il tempo trascorra senza cedere all’illusione che un qualcosa vi si possa imprimere. Quale traccia potrebbe lasciare la cenere in un fiume? Io sono polvere e polvere ritornerò. Amo il mio divenire di polvere soffiata dal vento, senza luogo assegnato, indifferente a qualsivoglia sepoltura. Quale immagine trattenere di chi sa in partenza cla dissoluzione del proprio essere? Perché prepararsi a cercare tra i morti colui che, una volta, è stato vivo? Una volta: ed è anche troppo.” PHILIPPE FOREST

    #5889 Risposta

    Eleonora

    Come diceva Foscolo – ed io concordo – le sepolture non servono ai morti ma ai vivi, a chi rimane, alle persone care che trovano sollievo in quella “corrispondenza d’amorosi sensi” la quale crea persino in chi non ci sarà più l’illusione di non morire davvero (se continua a vivere nella mente di un amico). “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna…” (I Sepolcri). ciao 🙂

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