Enneagramma Associazione Internazionale Studi Enneagramma

riflessioni

HomePage Forum Forum ASS.I.S.E. riflessioni

Questo argomento contiene 1 risposta, ha 2 partecipanti, ed è stato aggiornato da  Antonio Barbato 11 anni, 3 mesi fa.

Stai vedendo 2 articoli - dal 1 a 2 (di 2 totali)
  • Autore
    Articoli
  • #10993 Risposta

    argoiin
    Membro

    Negli ultimi sei mesi mi hanno colpito due lutti importanti ed ho pensato di darmi uno sguardo enneagrammatico, un modo come un altro per cercare di dare un senso a quello che sto provando in questo momento.
    Circa un anno fa (era il 4 agosto) la mia mamma (un Nove come me) che aveva superato un grosso intervento cardiaco tre anni prima, ha cominciato ad avere dei sintomi neurologici di incoordinazione e difficoltà di memoria. In seguito alle indagini cliniche è venuto fuori che c’erano una ventina di metastasi cerebrali dovute – forse – ad un carcinoma polmonare al V stadio.
    Questa scoperta se da un lato ha fatto crollare il mondo addosso a tutti (abbiamo preferito, in famiglia, di non dire niente a mia madre per farle godere al meglio quelli che i medici senza giri di parole hanno definito “gli ultimi momenti”) dall’altro ha unito me e mia sorella più che in passato. A distanza di un anno, poi, sono convinta che mia madre sapeva tutto ed ha fatto in modo da farci credere di essere all’oscuro perché ha sempre fatto in modo da non creare troppe preoccupazioni negli altri. Comunque….
    Per me, la mia mamma è stata quel genitore distante che (insieme a mio padre Due e manipolativo) mi ha reso il Nove che sono oggi. Questo ha quindi sempre condizionato il nostro rapporto: mi ha sempre considerato come un suo clone, sostituto, in qualche modo accomunate da uno stesso destino di sacrificio, senza però essere una presenza apparentemente forte nella mia esistenza. Era quella che nelle parole di mio padre non doveva preoccuparsi, spaventarsi, o essere in qualche modo scossa. Inoltre, mi è sempre stato venduta (e devo dire ci sono riusciti bene) la sua distanza come una conseguenza del fatto che io fossi più legata a mio padre con un sotterraneo senso di colpa che, in verità, non sono mai riuscita a fare mio completamente: sin da bambina infatti pensavo che visto che mio padre era quello più affettuoso era giusto e normale che io gli volessi più bene.
    Tornando all’anno scorso: dopo i primi momenti diagnostici il vivere quotidiano ha assunto velocemente un nuovo ritmo. Abitando con i miei mi sono ritrovata ad occuparmi di due bambini (mio padre era già da tempo in sedia a rotelle per una triplegia dovuta ad ernie discali presenti in tutta la colonna vertebrale e da buon Due aveva già completamente “deposto le armi” avendo mia madre e me che si prendevano cura di lui…
    Fare le cose per un Nove non è difficile, anzi: occuparmi fisicamente di entrambi devo dire che non l’ho mai considerato pesante, nonostante le persone intorno a me non facessero altro che farmi notare come era difficile e chiedersi come potevo farcela (sì perché fondamentalmente il mio ruolo in famiglia era quello di una che non solo non era capace di farcela da sola, ma anche che se ne fregava delle cose intorno, vabbè….)
    La malattia di mia madre che ha comportato una lenta e graduale perdita delle funzioni cognitive e delle autonomie personali soprattutto nell’ultimo mese e mezzo della sua vita, da un lato mi ha messo davanti alla necessità di portare avanti la gestione familiare e mi ha fatto rendere conto di quelle che sono delle capacità semplici e normali che non mi hanno mai e non mi ero mai riconosciuta fino ad allora e che ho trovato innate, dall’altro mi ha messo davanti a quella che (nonostante quello che hanno detto le altre persone facendo riferimento allo stato mentale di mia madre) è stata la vera rappresentazione della mia relazione con lei: nonostante fossi quella più presente nel suo quotidiano, l’unico nome che ha dimenticato è stato il mio (sostituendolo con uno che non fa parte assolutamente della nostra famiglia) e devo dire che questo, anche a distanza di più di sei mesi da quando è andata via, fa ancora molto male.
    Fino alla fine, credo di non avere risolto davvero la relazione con lei, non solo a causa della patologia o del suo modo di essere con me, quanto piuttosto a causa del mio modo di essere con lei: da un lato ho cercato di mostrarle nei fatti (le parole non erano utili) che ero diversa da lei, che il comune retaggio di sacrificio stava solo nella sua testa, che le cose si fanno per amore e non solo perché quello è un destino che ci è stato assegnato, ma devo dire che non so se le sia arrivato questo messaggio. O forse sì visto che mi ha dato un nome diverso ed estraneo…
    Qualche minuto prima che spirasse, era in coma e respirava ancora, ho avuto una strana sensazione: non so come spiegarla in altri termini ma ho sentito che era andata via; eravamo con lei io e mia sorella e le ho detto chiaramente che mamma se n’era andata anche se respirava ancora. Circa una decina di minuti dopo il suo respiro semplicemente si è fermato, senza rantoli senza nulla di forte: come dire non ha dato fastidio neanche allora.
    A distanza di nove mesi, non so dire quanto mi manca, anche perché ho la sensazione di portarmela dentro in maniera che sta diventando pacificata, però: il dolore di non essere riconosciuta non passa, ma non posso dire che le porto rancore, in fondo il nostro è sempre stato un rapporto mediato e oggi che parlo alla sua foto a casa o al cimitero devo ammettere con tristezza che è lo stesso modo in cui le parlavo quando c’era. Le ho sempre in qualche modo girato intorno come se non ci fossero mai stati spazi di vera e propria vicinanza non solo fisica tra noi…..
    Dicevo di due lutti: ebbene sì: a luglio, mio padre ha deciso di raggiungerla, ed invece a lui porto rancore e tanto. Dico “deciso” perché gli ultimi sei mesi sono stati semplicemente un lungo suicidio… A questo proposito forse mia madre aveva ragione quando parlava di un destino che ci accomuna (sua madre ha preso lo stessa decisione di mio padre, di lasciarsi morire, dopo la morte del marito, anche se mio padre ci ha messo molto meno tempo di mia nonna).
    Come accennavo in precedenza, mio padre è un Due che a causa della sua patologia è dovuto diventare completamente e sempre più dipendente dalle persone che gli stavano intorno. Se questo all’inizio, quando c’era mia madre, sembrava quasi dargli un senso di piacere, dopo la sua morte il dover dipendere fondamentalmente da me (che tra l’altro ce la facevo a dispetto dell’immagine che soprattutto lui aveva di me) è stato per lui una catastrofe, in special modo a causa della mancanza totale di privacy a cui era giunto il nostro rapporto.
    Nella relazione con lui devo fare una piccola premessa: circa quindici anni fa, quando erano appena cominciati i suoi problemi motori (ha sempre rifiutato terapie riabilitative) mi fece una scenata delle sue, da buon Due, dicendomi che dovevo, da quel momento, smetterla di volergli bene (come se fosse un interruttore che si spegne) perché in questo modo lui poteva morire (eh sì essere claudicante per lui era lo stesso che essere in punto di morte) tranquillamente senza doversi preoccupare per me. Naturalmente non solo ci ho sofferto a lungo ma soprattutto – ancora adesso lo è – quella richiesta era totalmente priva di senso sia da un punto di vista affettivo che logico. Da allora mi ha sempre trattato con un’apparente freddezza come a sottolineare anche fisicamente la distanza che doveva mettere tra noi e spesso ha utilizzato dei comportamenti che non mi vergogno a dirlo mi hanno portato a disprezzarlo. So che è un sentimento molto negativo soprattutto visto che l’ho provato anche nell’ultimo periodo, però questo non mi ha mai fatto smettere di amarlo, checché ne pensasse lui.
    Al contrario di mia madre, i suoi ultimi momenti sono stati più drammatici, e forse anche melodrammatici, ma mettiamo ordine: il giorno della morte di mia madre, lui ha chiaramente detto di non avere alcuna ragione per vivere e quando le persone intorno gli facevano notare la presenza mia e di mia sorella semplicemente faceva spallucce. Forse solo ora riesco a comprendere, mettendo una certa distanza emotiva, che nonostante tutto era davvero lui il lato debole e bisognoso della coppia e che davvero non aveva motivo per vivere senza di lei. Al momento, invece, ho pensato che era un modo come un altro per essere al centro dell’attenzione. Con il passare dei mesi ha cominciato a non voler mangiare a bere pochissimo e a cadere in uno stato depressivo che tutti noi intorno abbiamo attribuito al grande dolore che stava vivendo.
    Ha perso circa quaranta chili e questo lo ha reso molto più facile da gestire per me da un punto di vista fisico. Aveva smesso anche di prendere i medicinali che prima servivano a tenere sotto controllo una forma di diabete mellito e di ipertensione perché sia l’alimentazione leggera che il poco movimento, hanno favorito un rientrare nei limiti delle analisi ematiche. Però lo stato di debilitazione non ci ha permesso, nel momento in cui ha cominciato a soffrire di ittero di poter fare delle indagini approfondite che forse ci avrebbero fatto scoprire la presenza di un tumore al fegato.
    Dall’inizio di luglio, poi, ha smesso anche di bere ed è andato in blocco renale, ha voluto essere accompagnato in ospedale dicendoci che andavamo lì solo per farci dire che non c’era più niente da fare che non voleva essere attaccato ad una macchina e che voleva tornare a casa, cosa che abbiamo fatto. Il suo orgoglio ha avuto una piccola batosta perché non è riuscito nel suo intento di morire nel momento in cui è tornato a casa. Ci sono voluti altri due giorni in cui chiedeva di essere ucciso: a turno a me e mia sorella – so che soffriva e ci sto ancora male oggi – ci chiedeva di prendere un coltello o una pistola (dove poi?) e di aiutarlo a morire. Questo suo modo di fare, però, ha scatenato solo reazioni negative, fino alla rabbia, ma lui non ci sentiva visto che stava raggiungendo il suo obiettivo.
    Nelle ultime sue sei ore, poi, è stato tutto un “gioco” tra me e lui: devo dire che non riuscivo proprio a lasciarlo andare anche se per tranquillizzarlo gli ho detto che gli avevamo fatto un’iniezione (era soluzione fisiologica) e che doveva solo aspettare che facesse effetto per morire. Questo l’ha tranquillizzato un po’, ma sapevo che non sarebbe stato facile: abbiamo litigato e fatto pace gli ho detto che nonostante tutto gli volevo bene e lui mi ha risposto che io non potevo sapere quanto lui ne voleva a me e poi mi ha detto grazie. Questo mi ha fatto scoppiare in lacrime ma lui mi ha detto che non dovevo piangere, quindi ho smesso e poi ho detto che adesso poteva andare perché mamma lo aspettava. Sfortunatamente per lui e per noi, i suoi ultimi respiri non sono stati lievi come quelli di mamma, tanto che l’ultima cosa che ha detto è stata che era veramente difficile andarsene: in cuor mio credo che questa difficoltà dipendesse dal fatto che ci lasciava sole e che se ne rendeva conto in quel momento.
    Oggi a distanza di nove mesi dall’uno e di due dall’altro posso dire che c’è un dolore che ci si porta dentro e che non credo finisca, però devo anche ammettere che -nonostante non l’abbiano mai dimostrato direttamente, e forse neanche creduto del tutto – hanno creato una persona in grado di affrontare le difficoltà con una buona dose di forza interiore e che al contrario di quello che le dicevano, sente le altre persone come un sostegno e non come un ostacolo e che solo adesso forse può aprirsi al mondo senza il timore di “tradire” un messaggio profondo di sfiducia e competizione.
    Detto in questi termini, forse, può sembrare cinico, ma anche potersi rendere conto di essere completamente diversi da quello che ti avevano convinto che eri è un dono che, purtroppo, si può scartare solo quando quelli che l’hanno fatto non ci sono più: spesso per spezzare dei legami ci vuole un dolore senza fine.
    Da parte loro di doni ne ho ricevuti tanti e per questo li devo ringraziare. Intendo quei doni che ti porti dentro per sempre: la capacità di sacrificarsi per raggiungere quello che si desidera, il senso di onestà che ha sempre pervaso le loro azioni, la visione di un amore che non ha sopportato di far trascorrere lontani neanche un anniversario, ma anche la possibilità, oggi, di scoprirsi separati e non – completamente almeno – persi e di rendersi conto che, nonostante non me ne fossi mai resa conto perché troppo concentrata su di loro, ci sono molte persone che mi apprezzano e mi amano per quella che sono a dispetto di quello che penso di me stessa.

    #11028 Risposta

    Cara Raffa, ci sono così tanti spunti in quello che hai scritto, che non basterebbe un capitolo per cercare di esprimere le riflessioni che hai indotto. Mi limito, quindi, ad assorbire questi sentimenti e sensazioni che hai saputo trasmettere, lasciando che sia il mio cervello emozionale e non quello logico a cercare di comprendere quello che è accaduto a te ed ai tuoi cari. L’evento della nostra fine è l’unico certo, tuttavia noi viviamo la nostra vita facendo finta che esso non debba verificarsi mai e, quando tocca noi stessi o esseri a noi molto cari, la nostra reazione è quella che prova un bambino quando non ha più il giocattolo col quale si divertiva tanto. E’ molto vero quello che hai scritto, Raffa, che spesso per spezzare dei legami ci vuole un dolore senza fine, tuttavia quel dolore è prima di tutto per noi stessi, per la nostra meravigliosa debolezza, per lo squisita paura che ci sostiene quando ogni coraggio sembra essere solo nebbia che evapora davanti alla verità ultima ed assoluta della morte. Un abbraccio forte, Antonio.

Stai vedendo 2 articoli - dal 1 a 2 (di 2 totali)
Rispondi a: riflessioni
Le tue informazioni: